Note sulla pratica della meditazione Sumarah

Laura Romano, 1995

Qui la mia intenzione è quella di introdurre brevemente quegli aspetti della meditazione Sumarah e della filosofia giavanese che si incontrano all'inizio della pratica. Questo articolo è la trascrizione della mia prima presentazione su Sumarah in Italia nel 1995 ( al congresso annuale della Società di Psicosintesi) poi pubblicato col titolo "Sè e Meditazione nella Pratica Sumarah" nella rivista italiana "Quaderni Asiatici" ottobre 1995.

Ilmu Sumarah è un particolare tipo di meditazione praticato da uno dei molti gruppi mistici esistenti a Giava, il Paguyuban Sumarah. Anche se la pratica e i principi di base di Sumarah hanno un valore universale, l’ilmu Sumarah, (lett. scienza/sapienza dell'abbandono totale) ha profonde radici nell'antico sistema di valori e concezione del mondo detto kejawen.[1] Per questo ritengo opportuno dire qualche parola in merito in particolare a proposito di come il kejawen vede la presenza dell'individuo nell'universo.

Nonostante le sue apparenze estremamente sincretiche, quello giavanese è, di fatto, un complesso di credenze estremamente omogeneo, basato sulla fondamentale convinzione cosmologica dell'assoluta corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo. La realtà in tutte le sue forme, dalle più raffinate (halus) alle più grossolane (kasar), è concepita come un tutto unico le cui parti non sono un semplice prodotto, bensì gli elementi ontologici che a questo tutto danno esistenza. E' qui assente la contrapposizione dualistica tra Creatore e creato e al contrario non solo vi è assoluta corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, ma tra i due non esiste alcuna precisa linea di demarcazione. Il tutto si manifesta nelle parti, ma la parte è già di per se stessa il tutto: l’individuo non è altro che quel microcosmo che contiene in sé tutte le manifestazioni del macrocosmo e che perciò costituisce la possibilità vivente dell'armonia tra il tutto e le parti, tra la materia e lo spirito. Egli è il punto d'incontro tra la sfera del razionale e quella dell'irrazionale, del conoscibile con l’ignoto, dell'umano con il divino.

Nel kejawen l’individuo è considerato come un microcosmo specularmente identico al macrocosmo per eccellenza: l’universo. Tra i due esistono poi infiniti microcosmi che sono altrettanto simmetriche e complete manifestazioni dell’universo, 'fenomenologicamente' differenti, ma 'sostanzialmente' identiche nella loro essenza.[2] In una sifatta filosofia e concezione del mondo profondamente unitaria ed essenzialmente monistica non vi è spazio per le dicotomie care alla tradizione filosofica occidentale. Le tipiche coppie di opposti come materia e spirito, soggetto e oggetto, positivo e negativo nella tradizione mistica giavanese assumono caratteristiche profondamente differenti, perdendo la connotazione di opposti e le valenze etiche a noi note e assumendo invece quelle di complementarità, indispensabilità e soprattutto inevitabilità. La questione etica diventa irrilevante di fronte a quella ontologica perché, come dicono i Giavanesi, ' ini kenyataan', questa è la realtà, e questo e solo questo è ciò con cui dobbiamo confrontarci.

Esistono in giavanese due tennini per dire realtà: kenyataan e kesunyataan. La prima è la realtà e la seconda è la Realtà, la prima fa riferimento al mondo fenomenico, al livello microcosmico e orizzontale, la seconda parla della Realtà come tutto, del livello macrocosmico e verticale.[3] 

L'esistenza di ogni individuo sulla terra, la vita individuale come manifestazione della grande Vita (Gesang agung), nella concezione dei mondo giavanese non è altro che un mampir ngombe, un fermarsi un attimo per bere un bicchiere di tè, un momento forse memorabile, ma comunque solo un momento del cammino e non poi così importante come a noi sembra.

Secondo il kejawen uno dei motivi principali per cui noi siamo limitati alla visione della nostra personale esistenza come un qualcosa separato dal tutto, consiste nel fatto che l’individuo è quasi sempre centrato nel suo ego (aku) e utilizza come strumento di interpretazione della realtà e di interrelazione con essa principalmente, se non unicamente, il pensiero (pikir) e le sue facoltà analitiche e inteipretative.

In un tale contesto la meditazione è un modo, uno strumento per cambiare questo punto di vista (e di azione) con una posizione interiore più completa ed equilibrata dove tutte le categorie dell’io abbiano uguale riconoscimento

Vi è un'immagine, molto cara ai Giavanesi -e non solo ai mistici- utilizzata per rappresentare il posto dell'individuo nel mondo: è quella di una carozza trainata da quattro focosi cavalli, guidata da un auriga e con un passeggero a bordo.

Ogni Giavanese ne comprende la simbologia: l’auriga sta a rappresentare l'io e il passeggero l’anima; i quattro cavalli sono le quattro passioni fondamentali dell'individu[4] e la carrozza è la vita. Tutti gli elementi sono ineliminabili e indissolubilmente legati tra loro. La carrozza va trattata con cura sia perchè possa soddisfare la sua funzione di comodo veicolo, sia perchè, in realtà, essa non ci appartiene; i cavalli, indispensabili al procedere della carrozza, possono tuttavia anche essere la sua rovina, possono infatti farla procedere alla velocità desiderata, ma possono anche, nella furia, rovesciarla con conseguenze disastrose. I cavalli sono potenti e focosi, sono pura energia che va utilizzata e diretta con saggezza e destrezza. Il cocchiere, l’io, desideroso di andare avanti, pieno di (buona) volontà, ma anche di ambizione, ha un ruolo solo apparentemente dominante: qui la sua forza è anche la sua debolezza e nel suo stesso potere è insita la potenzialità e il pericolo della distruzione. I1 bravo auriga non solo deve imparare a governare i suoi cavalli, ma per fare ciò dovrà anche conoscerli e amarli, capire i loro tempi, i loro punti deboli e le relazioni di forza tra loro: un auriga troppo debole si lascerà inevitabilmente prendere la mano dai suoi cavalli diventandone così lo schiavo, ma un auriga troppo dispotico li sfiancherà e potrà fare loro del male. L’abile conducente non vede solo davanti a sé, non pensa solo alla meta, ma ricorda anche cosa e chi è con lui e dietro di lui: la carrozza di cui si deve prendere cura e quel passeggero silenzioso che è l'anima. Alla fine la cosa davvero importante è fare buon viaggio!

In generale l’idea dei livelli, così come quella di fasi, è molto presente nella concezione giavanese che dà quasi più importanza al 'come' e al 'dove' che al 'cosa'.

Si potrebbe dire che il kejawen classifica l'essere umano in livelli di coscienza.

In Sumarah in particolare i diversi gradi di consapevolezza dell’io si potrebbero rappresentare nella forma di una spirale di cerchi concentrici che vanno da aku, l'io limitato e poco cosciente, l'ego ancora dominato dalle sue passioni e desideri, verso diri yang utuh, un io già più completo e più cosciente in cui la consapevoleza comincia gradualmente a dilatarsi fino al livello dell' hati nurani, letteralmente il cuore illuminato, dove l'io è più vicino a jiwa, l’anima e alle sue esigenze. L' hati nurani è inoltre la sede del guru sejati, il nostro maestro interiore, la voce che sempre conosce la verità, perchè è in contatto con jiwa. L'anima è per così dire il nostro bagaglio, al tempo stesso provviste e fardello per il viaggio della vita; nella concezione kejawen l’anima è 'data', ossia non può, in una vita, venire effettivamente trasformata. Essa è quello che è e il suo livello di maturità o meno è il dono karmico passatoci dai nostri genitori insieme al dono della vita.[5] L'anima ha le sue richieste e i suoi bisogni soffusi da un generale senso di nostalgia e aspirazione verso la perfezione, verso il divino, verso la liberazione e il superamento del dualismo. Fa' parte della pratica di meditazione imparare a riconoscere e ascoltare questo bisogno originario.

In Sumarah l’individuo viene considerato dotato di tre principali piranti (strumenti di lavoro): raga, il corpo, rasa, la sensibilità e sensitività e pikir, il pensiero, le capacità analitiche della mente.[6] 

La meditazione è inizialmente uno strumento e una tecnica per venire a fare la conoscenza di tutte le varie parti dell'essere, dalle più kasar, rozze alle più halus, raffinate. Infatti proprio come si può fare la conoscenza di un'altra persona, similmente è possibile incontrare i nostri vari 'altri', i loro ruoli, la loro condizione di salute o malattia e la parte che giocano nel nostro essere nel mondo. II discorso non è però di ordine psicologico, ossia con 'altri' non si allude a diversi aspetti della personalità, bensì a differenti aspetti dell'essere e al processo della loro manifestazione. In questo senso la meditazione prima di essere mezzo di conoscenza e di trasformazione è strumento di pulizia. In Sumarah la condizione di non coscienza viene spesso paragonata a una lampada a petrolio il cui vetro sia sporco di fuliggine al punto di far credere che la fiamma non vi sia accesa. La stanza è buia, la lampada non fa luce: se ne deduce che la fiamma sia spenta. Invece siamo noi a essere ingannati dalla nostra stessa condizione, proprio perchè con essa ci identifichiamo. La luce c’è comunque e sempre, essa è la sorgente della vita, è la vita stessa ed è sempre in noi, almeno finché siamo in vita.

Per procedere nella pratica di consapvolezza è indispensabile un atteggiamento interiore aperto e coraggioso: aperto, affinchè si possano manifestare le parti ancora sconosciute di noi e coraggioso per imparare a mettere in pratica nella vita quotidiana i nuovi livelli di comprensione di noi stessi e della realtà che ci vengono via via svelati. .

I1 lavoro di pulizia diventa allora un lavoro contro l'ignoranza e in favore della conoscenza, ma non una conoscenza intellettuale e analitica, bensì basata sull'esperienza diretta di tutto l'Essere. Tale è infatti la conoscenza mistica, dove la sensazione è quella di venire messi a conoscenza, più che di conoscere.[7] 

La meditazione Sumarah, come dice il nome stesso, si basa sulla pratica di totale abbandono, condizione necessaria per essere in grado di ricevere l’insegnamento e i messaggi del guru sejati. La pratica di una seduta di meditazione, così come la pratica nel suo insieme, inizia dal rilassamento profondo al fine di creare lo spazio e il silenzio necessari per il manifestarsi e lo svolgersi del processo di consapevolezza; questo consiste prima di tutto in un cambiamento di prospettiva, sia nella percezione della realtà sia nell’intervento su di essa.

Attraverso la pratica del rilassamento profondo e della meditazione, gradualmente lasciamo andare la tensione creata da quello stato di concentrazione a cui siamo abituati perché sin dai primi giorni di scuola ci è stato insegnato come il 'giusto' modo per raggiungere buoni risultati e in generale per fare 'bene' le cose. Gradualmente il 'focus' sul punto si allarga, la presa si allenta insieme all’ansia di prendere e di possedere (in questo caso possedere conoscenza, consapevolezza, illuminazione). La concentrazione si trasforma gradualmente in un posizione di apertura e ricezione che non solo è più rilassata, ma anche, essendo libera da preconcetti e intenzionalità, diventa più ricettiva verso i messaggi non sempre 'logici' dell' hati nurani e verso quegli accadimenti non ordinari che altrimenti verrebbero liquidati come impossibili.

Ho già accennato precedentemente quanto fondamentale sia nella concezione del mondo giavanese e nella pratica della meditaziona Sumarah in particolare, il concetto dei livelli e delle fasi. Vorrei ora aggiungere che essi sono tuttavia alquanto flessibili, precari o quantomeno non garantiti.

In Sumarah esistono principalmente tre livelli che vengono considerati come le tre fasi della maturità spirituale di un individuo.[8] Esse sono: tekat, lett. volontà, ossia l’intenzione, il momento iniziale che rende reale la decisione, qualunque ne sia il motivo, di partecipare a una sessione di meditazione o più in generale di avviarsi per il sentiero del cammino spirituale; iman, lett. fede, fiducia e in generale l’atteggiamento positivo e appunto fiducioso nei confronti della strada scelta, non solo perchè la nostra volontà li sostiene, ma anche perchè il nostro cuore 'sa' che quella è la cosa giusta per noi. Si tratta in questo caso di una fede che non è dogmatica e fissa, bensì basata sulle esperienze dirette di meditazione e di vita quotidiana; si tratta, per così dire, di una fede a posteriori. Infine il terzo stadio è quello di sumarah, lett. abbandono totale, dove il praticante si abbandona al Processo e a ricevere ciò che è dato senza più nè utilizzare la volontà, nè farsi forte della fede. Si tratta di una condizione assolutamente neutrale dove non è più necessario nessuno sforzo. Se da un lato sumarah è considerato lo stadio finale, dall'altro esso non viene visto come uno 'stato di grazia' conseguito una volta per tutte e in qualche modo garantito, ma semmai come un dono prezioso da proteggere e coltivare.

Quella di Sumarah è una pratica che, benchè punti al divino, è di per sé estremamente umana, nel senso che fa continuo riferimento ai limiti umani, tra cui quello del dimenticare. Ecco perchè eling, la 'memoria continua', è considerata quasi sinonimo di kesadaran, consapevoleza.

Le tre fasi di tekat, iman, sumarah possono anche essere interpretate come stadi di un rilassamento via via più profondo, dove aku, l’ego, allenta finalmente il comando sottomettendosi alla Legge Universale, alla Vita.

Solo allora, quando l’ego si è fatto da parte, saremo in grado di riconoscere e ricevere ciò che in Sumarah è definito Tuntunan, la Guida: si tratta di una energia che appunto ci guida, ci dà direzione per la nostra vita spirituale e materiale, attraverso intuizioni e rivelazioni. E' in questo 'spazio' che emergono 'dal basso' ricordi, emozioni, ambizioni, aspetti inconsci che altrimenti si manifesterebbero solo nei sogni, mentre vengono invece ricevuti 'dall'alto' messaggi, verità, intuizioni, indicazioni a volte riguadanti noi stessi, a volte altre persone. Questo tipo di messaggi sembrano non arrivarci dal nostro solito io, ma in qualche modo da un'altra parte del (nostro) essere. E' così che si crea la possibilità di un cambiamento di prospettiva e di un' apertura graduale a una realtà altra da quella ordinaria. Mentre ciò avviene allo stesso tempo, grazie alla forza del Tuntunan, continua anche il processo di pembersihan, purificazione. Poiché ci siamo resi disponibili e aperti al Processo, il vetro della lampada a petrolio può venire gradualmente pulito.

Il raggiungimento dello stato di sumarah, di totale abbandono, è indispensabile perchè tutto ciò possa avvenire.

E' forse da qui che nasce la tipica accusa da parte delle culture occidentali rispetto al presunto fatalismo e alla passività di certe tradizioni orientali, quella giavanese inclusa.

Questo tipo di critica è secondo me più che altro dovuta a un equivoco, un’incomprensione che consiste nel fatto che ciò che è visto come non attività, mancanza di sforzo e di forza è in realtà semplicemente un cambio di soggetto: l'ego che è solitamente attivo e completamente in comando, nella pratica sumarah diventa passivo o comunque meno dominante e viceversa ciò che è solitamente passivo o addirittura non manifesto viene risvegliato e diventa attivo. Chi parla, chi agisce, chi sente e comprende è naturalmente sempre lo stesso individuo, ma in uno stato differente, quello che in Sumarah viene definito Trimurti, una condizione dove mente e cuore, ragione e sentimento si fondono nella coscienza superiore di Budi.[9] 

Questa è tutt'altro che una condizione passiva. Al contrario è di solito una condizione di scoperta e rinnovamento. La novità è che l’ego non è più re e poichè siamo abituati a vederlo sul trono e a seguire i suoi ordini, quando non è più così può anche sembrare che non succeda niente......ma ancora una volta si tratta solo della nostra miopia.

In Sumarah un altro punto basilare, è quello della accettazione (narimo). II concetto di narimo è estremamente enfatizzato nella tradizione mistica giavanese e va compreso in un' ottica spirituale e non secondo valori etici di culture che si basano per esempio sull’etica della produttività e che di conseguenza considerano l’ambizione una virtù e la competitività la fonte del successo nella vita.

Nella filosofia giavanese accettazione significa una comprensione più profonda della Legge che regola il Tutto; significa ammettere l’impotenza, la limitatezza e la sofferenza di aku imbrigliato nei tentacoli dei desideri e delle passioni; significa intuire il senso più ampio dell'universo considerandosene parte e partecipi. Il valore dell’accettazione si basa inoltre su una visione che tiene in considerazione l’esistenza della legge del karma, i cui confini vanno certo molto al di là del nostro campo visivo e la cui saggezza e verità spesso non sono a noi imediatamente conoscibili o comprensibili. Va infine detto che l’atteggiamento di narimo si riferisce soprattutto alla condizione interiore e non alle attività o iniziative pratiche e concrete che spesso è necessario e utile prendere.

La pratica della accettazione si basa sulla consapevolezza che il più delle volte il dolore causato dal nostro rifiuto di un determinato evento o problema è più grande e più difficile da superare del problema stesso.[10] In questo senso Sumarah insegna a identificare l’ostacolo vero e proprio con il rifiuto e la rabbia, superati i quali, il più delle volte il problema perde molto del suo potere e della sua importanza. Così più si individua la radice del problema e della rabbia in noi stessi anzichè fuori di noi nel fatto occasionale che ha scatenato la nostra rabbia, più il problema si minimizza fino spesso a dissolversi.

Mi sembra che l’incomprensione e le resistenze che esistono su questo punto, siano in un certo senso la prova dell'attaccamento che la mente ha sviluppato rispetto alle sue 'soluzioni' e la dimostrazione della testardaggine di aku, che non vuole rinunciare ai suoi assiomi e alle sue sicurezze.

La conoscenza mistica è spesso sorprendente e indiretta. Quasi per definizione per essere in grado di ricevere un’intuizione dobbiamo smettere di pensare e dobbiamo imparare a lasciare spazio a ciò che a prima vista può sembrarci illogico o sconveniente. Quando poi eventualmente arriviamo a un qualche tipo di verità, essa non sarà una conquista o il frutto della volontà dell'io,[11] bensì, più che altro, un dono: la sua veridicità verrà poi a suo tempo verificata nella Realtà, anche se spesso l’origine della nostra intuizione o rivelazione rimarrà a noi stessi oscura.

Sumarah è una strada mistica morbida e tollerante, dove una delle prime cose che si imparano è quella di tenere conto dei propri limiti insieme alle proprie infinite potenzialità. E' questo uno dei molti paradossi della pratica spirituale: benchè la luce del divino brilli in ognuno di noi, non siamo Dio; anche se il nostro hati nurani anela per sempre alla perfezione e all’unione col Divino, in quanto esseri umani probabilmente non saremo mai liberi da questo anelito.

Nella mentalità e nel modo di vivere occidentali il limite ha un suo valore solo in quanto qualcosa da superare; al contrario in Sumarah e nella filosofia kejawen in generale, esso è qualche cosa che va prima di tutto accettato. Un altro apparente paradosso della pratica spirituale sta nel fatto che l’accettazione è proprio il primo passo verso l’eventuale cambiamento, mentre il desiderio per il superamento dei nostri limiti è precisamente il più grosso ostacolo e il più subdolo nemico.[12] 

Abbiamo visto come la meditazione sia una strada per una più completa conoscenza e comprensione del livello microcosmico in relazione a quello macrocosmico, attraverso l’esercizio di sviluppare facoltà diverse da pikir. Dal punto di vista spirituale pikir viene infatti considerato il livello più elementare, lo strumento più semplice e anche più ovvio di conoscenza, nonché spesso fonte di varie tensioni psicofisiche.[13] E' interessante notare come ciò che rappresenta la somma attività dell'essere umano in un dato sistema di valori, può essere considerato mediocre o addirittura negativo in un altro.[14] Nella concezione giavanese vi sono altri due ‘strumenti’ della mente considerati ausiliari o addirittura superiori rispetto a pikir. Uno è angen-angen, l’attività della parte posteriore del cervello, connessa alla memoria (non necessariamente la memoria conscia) e in contatto con rasa. L'altro è cipto, la capacità della veggenza, che si può sviluppare con l’esercizio di particolari pratiche di concentrazione; questa facoltà è connessa con la parte anteriore del cervello,in particolare la zona tra le soppracciglia, il cosiddetto 'terzo occhio'. Cipto, benchè in generale ritenuto superiore a pikir, è tuttavia ancora un'attività limitata e gli esercizi connessi al suo sviluppo hanno spesso seri effetti collaterali. Sumarah disapprova l’utilizzazione di cipto a meno che non avvenga in modo del tutto spontaneo e occasionale. Uno dei punti base della meditazione Sumarah sta proprio nella differenza tra rilassamento e concentrazione: mentre quest'ultima crea tensione e un certo 'rimpicciolimento' dell'orizzonte della coscienza, il rilassamento profondo porta ad aprirsi verso una visione più ampia e una consapevolezza totalizzante.

Lo strumento di lavoro più enfatizzato in Sumarah è tuttavia rasa. I1 termine rasa, forse a Giava la parola più usata in qualunque tipo di conversazione, include tutti i livelli del sensibile, dai più materiali ai più sottili. Rasa è gusto e sensazione, sensibilità e sensitività, sentimento e intuizione. In generale rasa è considerata situata nella zona del petto, anche se in verità non può essere materialmente localizzata. Rasa è l’intelligenza della sensibilità e segue una logica tutta sua.[15] Mentre pikir e cipto sono entrambi ancora fortemente legati all'ego e alla volontà, rasa può aiutarci a prendere graduale distanza dal dominio del pensiero razionale e dal controllo dell'ego. Il 'lavoro' della meditazione è tra l’altro quello di risvegliare e purificare il rasa. Se con pikir si comprende e con cipto si vede, solo con rasa si può totalmente e veramente 'essere', sentirsi a casa propria (mangon).

Tutti gli strumenti dell'io, tutte le parti dell'essere hanno evidentemente la loro importanza, nonchè la loro ragion d'essere. Il problema rimane il fatto che l'individuo vive di fatto la maggior parte della sua vita in aku, in tekad e in pikir. Da qui la necessità individuata da Sumarah di enfatizzare la pratica di rasa e di imparare a conoscerne a fondo la qualità, il linguaggio e l’intelligenza.

Ho accennato all'inizio all'importanza di creare in noi il vuoto e il silenzio necessari per un diverso tipo di conoscenza. Tuttavia non possiamo aspettarci di riuscire a cambiare tutto senza essere disponibili a cambiareil nostro punto di vista. Se la prospettiva ha da essere 'altra', allora è necessario spostarsi, forse poco alla volta, certo con pazienza e tolleranza, ma con decisione. Su questo punto non si può barattare, non sono ammessi compromessi. Se vogliamo cambiare, se vogliamo che la nostra vita sia diversa, dobbiamo essere disposti a una trasformazione radicale del nostro atteggiamento sia esteriore che interiore. E questo è difficile perché l'ego, è un'anguilla bianca (welut putih) lunga, scivolosa e solo apparentemente candida: è tutt'altro che facile agguantarla, vederne l'inizio e la fine, scoprirne la vera natura. Cambiare attitudine vuole dire anche cambiare abitudini, cambiare gli schemi e i percorsi conosciuti, vuol dire, almeno ogni tanto, lasciarsi spiazzare. Si tratta di scoprire un nuovo territorio, perciò l’importanza della pratica, per imparare tutto ciò che c'è per noi da imparare, non sottovalutando il valore dell'onestà interiore , che rimane pur sempre il requisito più importante di tutti nel processo di trasformazione della coscienza.

Solo nel silenzio e in quel vuoto che vuoto non è, solo in quella pratica che fare non è, può avere inizio il processo di pulizia, di risveglio e di sensibilizzazione dove il rasa viene 'affilato' e affinato, purificato da kasar, grezzo, verso halus, raffinato, da kotor, sporco, verso bersih, pulito.

Più si procede nel lasciare andare i vecchi strumenti di conoscenza e di azione e nell’aprirsi alla logica del rasa, più esso si purifica e si affina, gradualmente staccandosi da aku e dalla emotività non cosciente.

Procedendo nella pratica, rasa diventa allo stesso tempo più forte e più affinato e gradualmente ci si avvicina a ciò che in Sumarah viene definito rasa murni , il rasa puro, originario, dove si trova quello che il Sufismo chiama il 'cuore dei cuori' e che Sumarah definisce hati nurani o sanubari. E' solo qui che si può udire la voce del guru sejati o pamong pribadi, il vero maestro, la guida interiore, la scintilla del divino nell'umano. Ma il guru sejati parla un'altra lingua e per di più parla sottovoce. Ecco di nuovo l’importanza della pratica, dell'esercizio.......e degli errori.

Attraverso la pratica della meditazione Sumarah si impara a essere sempre più spesso in contatto con il guru sejati e a obbedirgli come a colui che solo sa veramente prendersi cura dell'io (momong aku). Grazie alla sua interrelazione col divino, essendone suo messaggero, il guru sejati ci guida verso quel 'Sè totale' che noi veramente siamo. Il guru sejati in Sumarah è più spesso definito pamong pribadi, la guida individuale, così chiamato perchè è proprio la nostra individualità, la nostra vera identità ad averne bisogno.

Anche alla persona del maestro in Sumarah non ci si riferisce mai con l’appetlativo di guru, ma sempre di pamong appunto per suggerire l'idea di guida, più che di maestro, ovvero non di qualcuno che sappia qualcosa che l’altro non sa, quanto piuttosto di chi, più avanzato nella pratica per esperienza e maturità, abbia il compito, a seconda della situazione, di guidare, sorreggere, incoraggiare o frenare.

In Sumarah un pamong è considerato effettivamente tale solo nel momento in cui riceve la Guida e la condivide con i presenti: la 'forma', poi, che l'energia guida prende può variare molto a secondo della situazione, ed è questa tra l'altro una delle ragioni delle notevoli differenze di 'stile' che esistono in Sumarah tra un pamong e l’altro. L'isegnamento non viene da nessun maestro 'esterno' ma sempre dalla energia Guida (Tuntunan) o dal nostro maestro interiore, con il quale il pamong ci ha aiutato a venire in contatto, spesso fungendo solo da specchio.

Chi guida non è quindi mai la 'persona-guida', bensì sempre ‘l'energia-guida’ che in una data circostanza viene 'canalizzata' da una determinata persona.[16] 

Se si potesse parlare di una finalità (e non si può) quella di Sumarah è il raggiungimento del Sè totale, nel senso dell’unione di tutti gli strumenti e le potenzialità dell'essere umano non più sotto la direzione di aku, ma di Budi (la coscienza speriore).

Budi, letteralmente intelligenza superiore, è la soglia tra l'umano e il divino, è il cancello aperto verso il raggiungimento dell'illuminazione (Pepadang) sotto la guida del Tuntunan, la Guida suprema.[17] Tutto ciò può sembrare estremamente teorico e qui in un certo senso lo è, poichè è esattamente ciò di cui non si dovrebbe parlare, proprio perchè non può essere compreso attraverso la parola, ma solamente attraverso l’esperienza individuale. Proprio come ogni altra esperienza straordinaria della vita, la realizzazione mistica, per breve e parziale che sia, non è qualcosa che si possa ricercare, ma arriva solo e sempre quando è giunto il suo momento, ossia di solito inaspettatamente. E' proprio per questo che quando cerchiamo di afferrarla, la perdiamo: non è destinata all'ego e perciò esso non può possederla.

Benchè l’illuminazione e la realizzazione siano la meta dell'anima e il fine di cui la meditazione non è che un mezzo, tuttavia in Sumarah si tende a parlare molto più del terreno che del celeste. L'idea che noi mortali ci troviamo su questa terra perchè abbiamo un lavoro da compiere, dei conti da saldare e una missione da adempiere rende l’aspetto della pratica quotidiana e del come 'essere nel mondo' decisamente prioritario in Sumarah. Il pamong pribadi è in effetti il nostro unico vero maestro e quindi il primo passo è quello di imparare a essere il più spesso possibile in contatto con tale energia e guida. Ancora una volta c'è bisogno di pratica e costanza, perchè i messaggi del pamong pribadi spesso non sembrano avere un senso logico immediato, ci prendono alla sprovvista e il più delle volte ci dicono cose che non vorremmo sentire. E' un po' come imparare una nuova lingua: ci vuole esercizio e perseveranza insieme al coraggio di rischiare un po', di fare degli errori e di sperimentare senza troppo orgoglio.[18] 

Spesso ciò che succede è che il pensiero analitico non vuole abbandonare la presa, la mente si ostina nelle interpretazioni a lei più familiari e le intuizioni e i messaggi ricevuti vengono più o meno coscientemente liquidati. E' una questione di paura, conscia o inconscia che sia, la ben nota paura dell'ignoto. E’ solo quando ci vediamo e ci riconosciamo completamente ignoranti, che ci apriamo la possibilità di entrare in contatto con ciò che è ancora sconosciuto. Quando ciò avviene, l’ego scompare per il semplice motivo che diventa completamente inutile. Nella conoscenza mistica questa rinuncia è necessaria. Si tratta del ritorno all’innocenza originaria; prima di ciò aku farà sempre resistenza e lotterà strenuamente per la sua supremazia. Mille volte aku, l’angilla bianca rivendicherà il Processo come suo, sentenziando a alta voce: "Questa è la mia vita!" Quante volte e in quanti modi verremo delusi dipenderà dal nostro livello di consapevolezza, dalla nostra disponibilità e dedizione. Così facendo crediamo in qualche modo di proteggere i nostri diritti, ma in fondo al cuore sappiamo che stiamo invece perdendo, che in realtà stiamo solo facendo del male al nostro vero sé. A volte così resistendo si ha l’impressione di raggiungere una certa chiarezza, una certa pace: il panorama è familiare e questo ci dà un senso di sicurezza........ma si tratta di un inganno, una delle trappole dell'ego! La nostra mente è riuscita ancora una volta a tradurre il nuovo nel vecchio, quell’intuizione inaspetttata in un ragionamento accettabile e conosciuto; eppure, mentre così ‘capiamo’, sentiamo che la verità ci sta sfuggendo.

Sumarah insegna allora a essere non solo pazienti e tolleranti , ma anche assolutamente onesti, perchè la 'confessione', quando viene dal 'cuore dei cuori', dall' hati nurani, ha già di per se stessa un incredibile potere trasformativo

Poi ciò che conta è solo la direzione, è seguire il proprio processo, con dedizione fiducia e onestà, mettendo un piede davanti all'altro senza guardare la cima della montagna.

E' la pratica di innaffiare l’albero per innaffiare l’albero e non per il frutto che un giorno darà.

NOTE

[1]
Kejawen è il termine usato per definire l’insieme delle credenze mistico-magiche e in generale la concezione del mondo dei Giavanesi. Si potrebbe definire sia una religione che una filosofia risultato della fusione tra le più antiche credenze indigine e le tre principali religioni che si susseguirono a Giava: il Buddismo, l'Induismo e l'Islam.
[2]
Per esempio nella tradizione kejawen la casa, il quartiere, il mercato, il villaggio vengono considerati come microcosmi da un lato di per sé completi e autonomi, dall'altro specularmente identici e rappresentativi del Macrocosmo. E' per questo che la salvaguardia dell'armonia è una questione di massima importanza nel mondo giavanese.
[3]
La vita, questa nostra esistenza è kenyataan: essa è solo un'illusione rispetto a kesunyataan, ma una vivida realtà tutt'altro che maya, agli occhi di aku, l'io.
[4]
Le quattro passioni (napsu) fondamentali sono connesse ai quattro elementi base della natura. Ciascuna di esse inoltre ha un aspetto negativo e uno positivo, una sede specifica nel corpo umano e un colore caratteristico. Questo semplice schema può dare un'idea delle reciproche connessioni.
Nome della Passione Aspetto negativo Aspetto positivo Elemento Sede Colore
AMARAH rabbia entusiasmo fuoco sangue rosso
ALUAMAH ingordigia restistenza terra carne nero
SUPIAH lussuria pace interiore acqua colonna giallo
MUTMAINAH fanatismo
presunzione

devozione
bontà 

aria respiro bianco
[5]
Nella concezione Sumarah l’anima può essere più o meno matura, a seconda del punto che ha raggiunto nel suo cammino verso l’Origine e a seconda del suo bagaglio karmico che è considerato legato alle precedenti incarnazioni, ma anche al karma dei genitori, degli antenati, del proprio paese, eccetera.
[6]
In giavanese esistono due termini per definire l’attività del pensare: pikir, che si riferisce al pensiero logico-razionale e alle capacità analitiche della mente ed è considerato una attività della parte frontale del cervello e angen-angen, che è invece situato nella parte posteriore del cervello, meno legato alla logica e più alla coscienza e alla memoria. Mentre pikir necessita concentrazione e in genere procura stanchezza, angen-angen è una posizione più rilassata, meno precisa, ma più intuitiva.
[7]
In giavanese esistono cinque termini per definire il processo di conoscenza a seconda del dove, del come e del ‘con cosa’ si operi. Nell'ordine: mudeng è la comprensione più semplice e immediata: è piuttosto superficiale, non necessita nè di molto ragionamento nè di particolare intuizione, è frettolosa, quasi scontata e spesso si basa su assiomi universalmente riconosciuti come veri. Mengerti è una comprensione intellettuale più elaborata e meno immediata, richiede generalmente un certo sforzo e una qualche elaborazione dei dati. Ngakoni è un livello di comprensione che già non è più esclusivamente mentale, ma comicia a utilizzare rasa, a ascoltare altre parti del Sè e soprattutto a ammetterne l'esistenza e a riconoscerne la validità. A questo livello tuttavia il cambiamento della posizione interiore è ancora più che altro intenzionale. Ngrumangsani è lo stadio successivo in cui l’attività di rasa diventa predominante e, benchè ancora in parte si basi sull'iniziale comprensione razionale, può eventualmente prendere un'altra direzione: coinvolge la mente e l’intenzionalità (niat), ma soprattutto le mette in contatto con hati nunani, il cuore illuminato. Ngrumangsani è comprendere ammettendo e profondamente sentendo la verità che si sta comprendendo: quando la comprensione tocca questo livello è quasi impossibile non piangere. Infine nglenganani supera e comprende i quattro livelli precedenti e il soggetto 'siede' in pace e chiarezza essendo diventato una cosa sola con l'oggetto. La comprensione è acquisita senza più dualità, senza conflitti, nè paure. Essa è completa perchè coinvolge il Sè totale. Secondo Sumarah è solo a questo livello di comprensione che è possibile il cambiamento e una vera trasformazione.
[8]
E' importane tenere presente che queste fasi non vanno considerate come rigide suddivisioni, bensì come una suddivisione che ha solo valore genericamente indicativo nel processo di maturazione spirituale
[9]
La condizione di Trimurti è resa in giavanese dall'espressione: "angen-angen lan roso kumpul keserotan dening Budi", che più o meno significa “la mente e il cuore si uniscono illuminati dalla luce di Budi”. In questi ultimi anni il concetto di Trimurti è stato elaborato in un sistema interpretativo molto complesso e dettagliato. Ho ritenuto inopportuno dilungarmi qui sull'argomento, che verrà eventualmente trattato in un'altra occasione.
[10]
Esistono in giavanese due parole molto simili etimologicamente e tuttavia profondamente diverse nel significato: kalah e ngalah. La prima significa perdere nel senso di perdere una battaglia, una prova di forza o un qualsiasi tipo di competizione dove avevamo l’intenzione e il desiderio di vincere; la seconda, invece, significa perdere di proposito, lasciare vincere l’altro, non a causa della propria debolezza, bensì grazie alla propria forza e superiorità. E' la forza della sottomissione, l’umiltà dei grandi, entrambi valori altamente stimati nella concezione del mondo giavanese.
[11]
E' questo uno degli ostacoli maggiori per il discepolo/praticante occidentale educato sin dall'infanzia alla filosofia di 'volere è potere' e quindi a considerare la forza di volontà come una delle qualità più preziose e più necessarie.
[12]
Tipico e forse massimo esempio di 'limite' è quello della morte, per antonomasia il limite della vita. Nella società occidentale la morte viene vissuta come evento assolutamente negativo: è la fine, la sconfitta, il vuoto, in qualche modo quasi una debolezza possibilmente da superare, da vincere, da risolvere. Nella concezione giavanese, al contrario, la morte è vissuta non come una conclusione, ma come un passaggio. Il limite, il confine è quello tra una realtà e un'altra e non tra l’essere e il non essere. La morte è un evento della vita.
[13]
Il tipico commento giavanese quando qualcuno si ammala è:".............pasti terlalu banyak pikiran........... , ossia :"........certo pensava troppo...........", come se pensare fosse quasi una specie di virus o comunque un' attività causa di probabile malattia.
[14]
L'aspetto negativo in questo caso è connesso alla qualità non trasformativa di pikir. In un certo senso infatti spesso più si capisce meno si cambia, perchè, avendo capito, si può avere la sensazione di avere già fatto ciò che vi era da fare, del nostro meglio come spesso diciamo. In questo senso la comprensione razionale può vanificare la possibilità della trasformazione.
[15]
Rasa è decisamente il termine più usato per esprimere le varie sfumature del non razionale: percezioni, intuizioni, sensazioni, ecc. 'Saya rasa' sta per: io penso, io sento, a me sembra, secondo me, intuisco che, ecc. Esistono poi vari gradi di ‘raffinazione’ di rasa da quello più grezzo e sporco (kotor) e ancora molto legato all'emotività, a quello più pulito (bersih) fino a quello murni (puro) sede come già si è detto del guru sejati·, la nostra guida interiore.
[16]
Una delle 'prove' della differenza tra il pamong-persona e il pamong-energia sta nel fatto che il secondo sembra spesso essere a conoscenza di verità di cui il primo è completamente all'oscuro.
[17]
Questo punto potrebbe essere ulteriormente sviluppato, ma di nuovo, a causa della brevità di questo articolo, ciò non è qui possibile.
[18]
In Sumarah si individuano due momenti di eguale importanza nella pratica della meditazione: il sujud pamiji (meditazione speciale o straordinaria) e il sujud harian (meditazione quotidiana o ordinaria). I1 primo è il momento vero e proprio del 'sedersi' da soli o in gruppo, con o senza la guida, è il momento in cui ci si ferma a meditare. Nonostante questo aspetto della pratica sia considerato indispensabile, tuttavia la meditazione speciale è vista principalmente come un esercizio in funzione della meditazione quotidiana, ossia di quel lavoro di autocoscienza e di consapevolezza che svolgiamo durante la vita di tutti i giorni. La finalità è quella di essere in grado, idealmente durante un'intera giornata, di mantenere lo stesso livello di consapevoleza e di equilibrio raggiunto durante la pratica della meditazione speciale. Ancora una volta solo costanza, pratica e una certa dose di coraggio ci porteranno a ridurre la distanza e il dislivello che solitamente esistono tra i due tipi di meditazione.

Glossario

AKU:  the 'I', usually in the sense of the ego.

ANGEN-ANGEN:  the activity of the back part of the brain, considered to be especially connected to the feelings and memory area.

BUDI:  the higher Self, the Supra-consciousness. It has been associated with the crown chakra and considered ‘the door to enlightment’.

CIPTO:  the power of clairvoyance .

ELING:  lit. to remember, in Sumarah is used in the sense of remembering the higher Reality, God.

GURU:  teacher.

GURU SEJATI:  the inner true teacher.

HALUS:  refined, smooth.

HATI NURANI:  lit. the enlighten heart, our pure heart, the one that cannot lie. It is also called sanubari.

ILMU:  Knowledge, usually in the mystical sense.

IMAN:  faith, believe.

KASAR:  rough, coarse.

KENYATAAN:  the phenomenal reality, immediately experienced through our senses and our understanding.

KEPRIBADIAN:  personality, identity.

KESADARAN:  awareness.

KESUNYATAAN:  the Reality beyond reality, the metaphysical reality that can be experienced only through mystical practice.

JIWA:  soul.

MANGON:  to sit comfortably, to feel at home, to be 'here' completely.

MOMONG:  lit. to care for, to look after (a child), here is used in the sense of spiritual guidance, also instead of teaching.

NAPSU:  desire.

NARIMO:  inner acceptance.

PIKIR:  thought, thinking process.

PAMONG:  lit. guide, in Sumarah it is used instead of teacher.

PAMONG PRIBADI :  the inner personal guide.

PIRANTI:  tools, attributes.

RAGA:  the physical body.

RASA:  the feeling realm, from the more physical feelings, until the most subtle ones.

RASA MURNI:  the purest feeling.

SANGU:  what we are provided with, provisions.

SUJUD:  lit. bow down like in the Islamic way of praying, in Sumarah it means meditation.

SUMARAH:  total surrender, specifically here means letting go of the ego and surrender to the Higher Principle or the Law of Nature.

TEKAD:  drive, will.

TUNTUNAN:  Supreme Guidance.